• 15 Dicembre 2025 16:57

Sacile 1968 – A un passo dal cingolo

DiDaniele Carozzi

Giu 17, 2025

Il sole settembrino che nelle prime ore della giornata friulana manda i suoi raggi spioventi a tagliare l’aria ancora opaca di bruma, può giocare brutti scherzi. Accade infatti che quel timido ma impietoso raggio luminoso metta in evidenza il velo di polvere che copre gli anfibi di una sentinella smontante, oppure vada a proiettare sul collo lunghe ombre di quella lanugine che rivela un po’ troppo lontano l’ultimo taglio di capelli. 
Se il tenente di picchetto ha l’occhio sveglio già di primo mattino, l’invito a ridimensionare la zazzera dal “coiffeur” di reggimento è scontato.
Così avviene, e con il Garand a bilancia mi dirigo verso quel collezionista di scalpi impropriamente detto parrucchiere, forse più realisticamente denominato “Kochis” in tutte le caserme d’Italia. 
Mentre sono seduto sulla poltrona a braccioli ed il gentiluomo maneggia senza riguardi la sua diabolica macchinetta, creando una sfumatura modello ergastolo sulla mia nuca, scambio due parole con Fazzini, il bersagliere della 3° Compagnia. Egli è accanto a me e sta esaminando allo specchio lo scempio già perpetrato a spese del suo cuoio capelluto. 
«Come mai sei in tuta mimetica? – domando – vai a sbalzare o sei di corvée in cucina?»
«Né uno né l’altro – risponde Fazzini – sto facendo il corso Cacciacarro»
«E come ti sembra?» continuo io.
«Indescrivibile, è da provare!»
Ruoto il capo verso di lui, rischiando di farmi accecare da Kochis che sta ormai ultimando la sua sadica opera, e chiedo:
«Ma che probabilità ci sono di… uscirne in formato ridotto?»
Fazzini sorride, poi sfilando una sigaretta dal pacchetto sbotta:
«Boh, non saprei, ma di solito non succede… »
Fantastico, penso fra me e me, c’è da credere che se uno rimane sotto il cingolo ne spostano il cadavere e continuano con indifferenza l’esercitazione.
Il bersagliere mi legge nel pensiero e dice: «Se ti interessa presentati al tenente Cosimo Del Ninno e lasciagli il tuo nome»
Detto questo ci salutiamo e, mentre il barbiere fa repulisti delle ciocche rimaste sul tovagliolo, rimugino la questione.

Cacciacarro – Sacile 1968

Credo che ogni uomo abbia, almeno una volta nella vita, il desiderio di misurare i limiti delle proprie capacità fisiche e psichiche. Gli sportivi lo fanno in continuazione, ma ritengo sia prova ancor più completa quella di valutarne la decisione, il sangue freddo, la lucida stima del pericolo. 
Sfidare il pericolo con leggerezza non è eroismo: è stupidità. Affrontarlo invece con preparazione, conoscenza e calcolo, significa avere fiducia in sé stessi. È una bella occasione per metterti alla prova, caro bersagliere. Cosa intendi fare? La risposta me la stavo già dando dirigendomi verso la palazzina della Compagnia di Del Ninno. 
Il tenente dei bersaglieri Del Ninno sembrava uscito da un romanzo d’avventura. Di taglia atletica, biondo con gli occhi chiari e la mascella decisa che gli crea due fossette alle guance, mi appare come l’ufficiale severo ma umano che nei film di guerra risolve le situazioni difficili e, riconoscendogli fegato da vendere, i suoi soldati lo adorano. Devo dire che in seguito questa mia opinione su di lui non muterà affatto. Anzi, ne uscirà rafforzata.
Mi presento. L’ufficiale dapprima mi squadra con cipiglio, poi prende nota del mio nome e della Compagnia alla quale appartengo. Quindi mi comunica che l’adunata per i cacciatori di carro sarà nel pomeriggio, al refettorio. Indossare tuta mimetica ed elmetto. 
Le parole di Del Ninno, mentre quel pomeriggio ci parla eretto su di uno sgabello, sono poche e chiare: 
«Sappiate che ciò che state per fare non è per avere ricompense. Nessuna licenza vi sarà data (n.d.a. la fece poi avere a tutti), né permessi od altro. Se intendete fare il cacciacarro, la cui ultima esibizione verrà eseguita in occasione della festa del reggimento, è solo perché vi sentite bersaglieri. Lo fate per voi stessi, nel ricordo di coloro che lo attuarono in guerra, con situazioni ben più tragiche e conseguenze pericolose se non fatali. E poi, che lo si voglia o no, potrebbe essere necessaria gente così preparata. Inizieremo con la ginnastica, poi con le evoluzioni sul carro fermo, quindi con il carro in movimento. Canteremo di sovente, ma per canto intendo qualcosa che ci faccia sentire fin fuori la caserma. Chi non si sentisse assolutamente convinto della decisione presa, me lo faccia sapere al più presto. Non vi è nulla di male. Ci siamo intesi?»
Si comincia. E sul serio.
La ginnastica, al reggimento, di certo non manca. Ma credo che il “fino alla frenesia” Del Ninno lo stia onorando come pochi. Flessioni e corsa, corsa e flessioni. Poi capriole, balzi, rotolamenti. Alla sera si arriva in branda ormai sfiancati, con le mani sbucciate e le ginocchia dolenti. Così prosegue per settimane. Nella pattuglia si è ormai creato un affiatamento tenace ed uno spirito di Corpo del cacciatore di carro prende forma nel già esistente spirito di Corpo del bersagliere. 
Un bel mattino, tornando dalla colazione con Morelli, un toscanaccio polemico ma dal cuore d’oro, notiamo a lato del cortile una figura confusa nella nebbia che, avvicinandola, rivela la sagoma di un carro armato. 
È un M24, un “cucciolo” se paragonato ad un Leopard o anche a uno Sherman, ma pur sempre una ferraglia da 18 tonnellate. Morelli mi urta con il gomito e strizzando l’occhio mi dice: «Ci siamo, l’è questo ‘he ci farà ballare».
Dire che un carro armato possa avere qualcosa di umano, può apparire un paradosso, una ridicola antitesi. Eppure giuro che quel residuato bellico immobile e silenzioso, con corazza e vernice ben conservate, mi dà l’impressione di un nobile decaduto ma dignitosamente raccolto in solitudine con la sua povertà. L’hanno portato dopo l’alzabandiera da laggiù, accanto al campo ostacoli, dove era sistemato con altri tre suoi pari fra i nobili M47 Patton e gli agili M113. E lui, fiero di sentirsi nuovamente utile, dimentica gli anni e la povertà.  Così, proprio come un vecchio gentiluomo, rimette la “caramella” all’occhio con le dita che escono da candidi guanti ormai consunti. 
Nel primo pomeriggio “Cucciolo” è fermo in mezzo al cortile. Uno ad uno facciamo la sua conoscenza montandogli in groppa, mentre Del Ninno tuona contro chi non appoggia il piede di spinta nel giusto punto della ruota porta-cingolo.
Le nostre mani stringono i previsti appigli per la salita, con pochi e veloci passi si arriva alla torretta, e da lì alla bocca da fuoco per poi gettarsi sull’asfalto davanti al carro, rotolare e distendersi a pancia in giù. Il Sali e scendi prosegue fino all’ora del rancio. “Cucciolo” appare ormai perfettamente lucidato da mani e ginocchia dei bersaglieri. 
Il Maestro di tutti i pittori sta ancora indorando le fronde di alcuni alberi, riservando per altri delle stupende varianti di rosso, quando l’ultima settimana “Cucciolo” fa sentire, a noi per la prima volta, la sua voce. È una voce vigorosa e prepotente, che sovrasta quella argentina della fanfara, situata al centro del piazzale per battere il tempo al battaglione impegnato nella corsa e negli esercizi ginnici. Che fosse giunta l’ora di veder camminare “Cucciolo”, lo avevamo intuito dalla presenza di due carristi che confabulavano con Del Ninno all’ultima adunata di pattuglia. 
Immagino come si possano sentire quei due poveri ragazzi dal basco nero, coscienti della responsabilità (seppur volontaria), di dover condurre un mezzo cingolato fra corpi umani sdraiati a terra, ora fissi ed ora in movimento. 
Ad un fischio del tenente ci gettiamo a terra proni, formando due file parallele in asse con i cingoli. Al secondo fischio l’M24 avanza lentamente, con un ruggito rabbioso e una nuvola di fumo nerastro; pare che venga alla nostra ricerca puntando minacciosa la bocca da fuoco, come un rabdomante tiene avanti a sé la forcella per individuare la sorgente d’acqua. Il rombo si fa sempre più vicino mentre quella montagna d’acciaio che chiamiamo “Cucciolo” ancheggia leggermente ingoiando fra i cingoli i compagni davanti a me. 
Ora è il mio turno; curo il cingolo destro che avanza con spietata regolarità, mentre i palmi delle mani sono umidicci per la tensione e strofino lentamente le dita sul terreno, quasi a volerlo convincere di pazientare ancora un po’ prima di accogliere i miei poveri resti. Due metri… e già il carrista alla guida non mi vede più dalla feritoia, un metro, mi fletto con la gamba alzata, poi via con il salto laterale e… giù, con il muso a terra. Si fa buio e lo sferragliare mi assorda mentre sento passare le diciotto tonnellate pochi centimetri sopra l’elmetto. La sensazione è quella di essere in una lunga gola della quale vedo davanti a me la luce che ne annuncia la fine. Ma pare lontanissima. Sento l’odore dell’asfalto, ed è un intenso profumo di terra, come il petricore che preannuncia il temporale nelle afose giornate estive. 
Ora il battesimo è avvenuto per tutta la pattuglia. Del Ninno fischia tre volte per indicare l’intervallo, mentre la fanfara ed il battaglione, che avevano interrotto gli esercizi ginnici, riprendono movimento. 
Allo spaccio truppa ritorna il buonumore, rimasto da parte nelle ultime ore di concentrazione. Così Brunello consiglia a Tosi di calare la sua ciccia se non vuole farsi “piallare” le chiappe dal carro armato, Lo Cascio apre una sottoscrizione per eventuali e degne onoranze funebri ai componenti la pattuglia, mentre Morelli avverte i carristi che se ci devono usare da “zerbino” è bene che finiscano tutti e del tutto. Altrimenti sarebbero i bersaglieri scampati a finire loro!
I giorni successivi, ormai vicini alla festa del reggimento, ci vedono perfezionare sempre di più l’addestramento. Scatto, velocità nell’aggancio e capriole migliorano e si susseguono di pari passo con l’aumentare della velocità del carro. È arrivato anche un gemello di “Cucciolo”, con il quale si rendono possibili le cadute incrociate. Ovvero gettarsi dal fronte di un carro per infilarsi immediatamente sotto quello che sopraggiunge in senso opposto. 
Gli attimi per il passaggio da una montagna d’acciaio all’altra sono pochi e preziosi. Poi, a carro passato, si ruota su se stessi, lo si aggancia posteriormente, si raggiunge la bocca da fuoco e via daccapo.

Un imbandierato 7 ottobre vede arrivare davanti alla tribuna delle autorità militari e civili due grappoli di scalmanati, abbarbicati ad altrettanti carri armati, che cantano a squarciagola inni bersagliereschi.
Gli M24 ringhiano in accelerata per salutare pubblico e autorità mentre Del Ninno presenta la forza. Poi i secchi fischi del tenente danno inizio alle nostre evoluzioni che rappresentano il “pezzo forte” a chiusura del saggio offerto dal reggimento. 
Per quindici minuti volteggiamo, danziamo e sfioriamo con confidenza quelle implacabili tonnellate in corsa, come fossimo matadores che nell’arena offrono la loro persona al toro infuriato per poi ingannarlo scostandosi all’ultimo calcolato istante.
Al termine, un fumogeno tricolore si alza da un carro mentre il pubblico, rimasto fino a quel momento con il fiato sospeso, esplode in un lunghissimo applauso.
La massima autorità presente, un generale di Corpo d’Armata, decide di compiere uno strappo al protocollo e scende dalla tribuna per congratularsi personalmente con tutti i componenti la pattuglia. Non molto alto di statura, un poco tarchiato, l’ufficiale generale ha parole di elogio e di fierezza mentre a strette di mano si complimenta con ognuno di noi. Era il generale Enrico Mino.